Un giorno al mare – ovvero: chi vive nel cuore delle Alpi non conosce il sapore del mare (2014)
Nata da genitori poschiavini emigrati in Svizzera tedesca trascorsi le estati della mia fanciullezza a Poschiavo “a munt”, non curandomi tanto dei racconti dei miei compagni di scuola che andavano “al mare” e non “solo” in montagna. Quando, in età adulta, mi misi sulle tracce dei parenti poschiavini emigrati a Roma volevo vederlo anch’io questo tanto esaltato mare. Ecco l’esito delle mie scoperte.
Sabato mi sono recata al mare. Avevo letto su una delle mie guide turistiche, e mi ricordavo vagamente, che si sarebbe potuto andarci anche in traghetto o in battello sul Tevere. Alla fermata Ponte Guglielmo Marconi sono scesa dall’autobus e ho raggiunto il ponte per vedere se, da qualche parte, trovavo il posto da cui sarebbe partito il battello. Tirava un forte vento e facevo fatica a camminare. Il cielo era nero, nuvole grosse avevano coperto il sole, cadevano alcune gocce di pioggia.
Il Tevere era là sotto, un filo giallastro senza movimento, senza segno di vita. Che fiume triste, pensavo. Ai margini c’erano piante e cespugli, che sembravano giacere sopra l’acqua. Dall’altra parte vedevo cavalli, un centro ippico. Mi sono affacciata all’altro lato del ponte. La stessa immagine un po’ deprimente. Verde denso da una parte, muri deserti dall’altra. Niente porto o porticciolo, niente ponte o pontile. Il mio viaggio sul Tevere da dimenticare. Intorno a me solo il traffico rumoroso, immondizia per terra, due uomini di una certa età aspettando pure loro il verde del semaforo. Ero sollevata di intravedere, tra alberi e un’area recintata di erba incolta, la Basilica di San Paolo fuori le mura. Lì c’era la metropolitana e da lì avrei potuto prendere il treno per Ostia.
Il treno sferragliava tranquillamente. Non c’era tanta gente nel mio scompartimento, turisti più che altro. Una coppia con gli zaini sulla schiena e, nonostante il tempo insicuro e tendente alla pioggia, con i sandali ai piedi, la carta geografica in mano come me. Un altro turista si riconosceva dalla grossa macchina fotografica che gli penzolava davanti alla pancia. Di fronte a me due giovanotti che non dicevano una parola e, un po’ più distante, una mamma con la figlia piccola, tutte e due con berretti uguali tipo Cindy.
Passavano le stazioni EUR Magliana, Tor di Valle, Vitinia. Il treno si svuotava, e solo pochi passeggeri salivano. E› entrato pure un uomo un po’ dubbio. Pelle abbronzata, vestiti neri sgualciti e polverosi, le scarpe nere malandate. Si è seduto vicino a uno dei due giovanotti taciturni e ha cominciato a parlargli. Questo però l’ha guardato con aria infastidita e gli ha detto a denti stretti, tanto che non sono riuscita a capire bene, ma qualcosa del genere: «Stai zitto!» o «Vattene!» E l’altro immediatamente ha cambiato posto. L’ho visto poi in fondo allo scompartimento discutendo vivacemente con altri passeggeri.
Nel frattempo avevamo lasciato la zona abitata. Dal finestrino vedevo zone industriali, depositi dell’immondizia, cimiteri di macchine. Insomma, tutto quello che sputa fuori la città e che l’uomo civilizzato preferisce non avere sotto gli occhi. Poi si vedeva un’area verde, dei pini marittimi, un paesaggio tranquillo e confortante. Eravamo arrivati a Ostia Antica. Mi sembrava di indovinare alcuni ruderi romani, ma forse anche solo perché l’avevo letto sulla guida e sapevo che dovevano esserci.
Lido Nord, Lido Centro. Mi sono distorta il collo a forza di guardare se si vedeva il mare. Ma niente, mi trovavo in mezzo a palazzi di media altezza, insignificanti. Alla stazione Lido Stella polare sono scesa e mi sono incamminata nella direzione in cui presumevo fosse il mare. E davvero, sono arrivata in uno slargo: dava su una specie di autostrada che fiancheggiava il mare o, più precisamente, gli stabilimenti balneari che si trovavano lungo la spiaggia e impedivano la vista. Ma il mare lo si immaginava, si sentiva l’aria umida sulla pelle, si udiva il rumore dell’acqua che si mescolava con quello delle macchine, si vedeva il niente oppure un orizzonte grigiastro e le nuvole pesantissime dietro gli edifici e io sapevo: era là, il mare.
Sono entrata nello stabilimento e mi sono guardata intorno. C’era prima il bar, poi un ristorante self-service con poca gente dentro. Attraverso i tavolini e il vetro ombrato delle finestre si scorgevano gli ombrelloni tutti chiusi, tutti in fila come ubbidienti soldatini colorati, uno giallo, uno rosso, uno giallo, uno rosso, e dietro ho visto, finalmente, le onde del mare molto mosso.
Ho ordinato un caffè e qualcosa da mettere sotto i denti e, appoggiata al banco, masticavo il mio tramezzino. Non c’erano turisti, la gente che arrivava sembrava essere del posto, veniva là a pranzare nella pausa del mezzogiorno, si salutava e se ne andava. Mi sono diretta verso la porta che dava sulla spiaggia, sempre nell’ansiosa attesa che qualcuno mi dicesse: «Signora, non ha pagato l’ingresso» oppure «Signora, qui non può uscire». Ma nessuno mi ha impedito di andare all’aperto e di raggiungere la spiaggia. Il vento mi tirava i vestiti e sentivo qualche goccia di pioggia sulla mia pelle. Al termine della stradina di legno, mi sono tolta le scarpe e con una silenziosa felicità ho immerso i piedi, tanto trascurati dalle mie camminate sull’asfalto della città, nella sabbia bagnata. Ho rivolto la testa verso il vento, e lui mi soffiava nel viso, mi faceva sventolare i capelli, mi accarezzava. Ho fatto alcuni passi su quel fondo tanto morbido e benevolo e mi sono avvicinata all’acqua. Le onde correvano a gara e la prima mi ha sfiorato le dita dei piedi, mi ha circondato le caviglie, la sua schiuma sembrava ridere di gioia, agitatissima, per poi ritirarsi con umiltà, lasciando spazio alle prossime, che venivano e se ne andavano rinfrescandomi piedi e anima e bagnandomi pure l’orlo dei pantaloni. Era uno di quei momenti rari e preziosi della vita in cui si perde, forse per un istante sfuggente, la sensazione di se stessi e si diventa, senza proprio accorgersene, tutt’uno con il mondo, con la natura, pensavo quando mi sono messa sulla strada del ritorno. Momenti che non si possono acchiappare né prolungare, ma che potevo prendere con me, custodirli nella memoria come un piccolo tesoro, perle di vita. Mi sono tolta la sabbia dai piedi, ho infilato le scarpe e ho attraversato il lungomare, lasciando dietro di me lo stabilimento con il sontuoso, ma, considerata la giornata, ironico nome «Belsole». Al piazzale della stazione ho aspettato il bus per andare a Ostia Centro.
Il traffico era denso pure lì. C’erano bar, gelaterie, pizzerie, stazioni di servizio, negozi di ogni genere, niente di bello. Mentre stavo ferma davanti a un semaforo rosso ho visto, dall’altra parte della strada, quell’uomo dalla pelle scura che avevo incontrato sul treno senza capire bene, se fosse un bracciante o un mendicante. Adesso aveva una grande bottiglia di birra in mano e vagava apparentemente senza meta. Allora, un bevitore piuttosto, mi è passato per la mente.
Camminavo e più mi allontanavo dal centro, più le strade si facevano deserte. Non erano più indicate sulla mia cartina. Misuravo il blu dell’orizzonte cercando di capire da che parte si trovasse il mare, un metodo evidentemente poco sicuro e per niente affidabile. Fortunatamente, all’altezza di un incrocio più trafficato, l’ho scoperta, la strada che portava al lungomare. Nel frattempo le nuvole nere si erano dissolte, il sole picchiava, ma l’aria umida dava un senso di freschezza. Ho attraversato lo stabilimento, questa volta senza esitare, e mi sono diretta verso la spiaggia. Lì ho scoperto, alcune centinaia di metri più in là, nella direzione da cui ero venuta, il pontile che da Piazza dei Ravennati esce sopra il mare. Era quello il posto dove avrei voluto arrivare. A piedi nudi ho camminato sulla sabbia bagnata. A volte un’onda più forte delle altre mi toccava piedi, caviglie e pantaloni, a volte l’acqua non ce la faceva quasi, non restava altro che un po’ di schiumetta bianca tra sabbia, sassolini e qualche immondizia. Gli stabilimenti erano quasi tutti ancora chiusi, chissà se avrei trovato un’uscita o se avrei dovuto tornare da dove ero venuta! Raggiungendo l’ultima di tutte quelle casette in fila, mi sono accorta della gente che ci stava lavorando, stava mettendo tutto in ordine. Di punto in bianco è arrivata una persona ed è sparita, in un altro posto ne è spuntata un’altra ed è sparita, silenziosi fantasmi in attesa dell’assalto spietato della vera e propria estate.
Ho raggiunto Piazza dei Ravennati e ho camminato lentamente lungo il ponte. Sembrava di camminare sull’acqua. Cercavo di cogliere quella sensazione particolare di pace e impetuosità che evocavano il sole caldo, il vento forte e il mare mosso. Osservavo le onde, come si formavano, si alzavano come se tentassero di superare la forza di gravità. L’acqua si levava, accelerava, allungava le braccia e si preparava per decollare, ma poi, all’ultimo momento si accorgeva dell’impossibilità e le onde crollavano, cadevano, spumeggiavano e correvano verso la spiaggia, ancora e ancora, senza rassegnarsi, un gioco interminabile.
Improvvisamente la voce di una donna mi ha strappata dai miei pensieri, dal mio dolce incanto. La donna, vestita fuori moda, teneva un cellulare all’orecchio e strillava in tono arrabbiatissimo, fregandosene degli sguardi irritati dei passanti. Era completamente fuori di sé, camminava agitata da un lato del pontile all’altro, urlava, il volume della sua voce cresceva fino a un punto che si pensava dovesse rompersi, allora prendeva fiato e ricominciava. Che sollievo quando, ogni tanto, stava zitta per ascoltare la persona con cui stava parlando. Mi sono affacciata sul lato opposto per schivare quella pazza e ho incrociato tre persone giovani, accorgendomi che a una di loro scendevano le lacrime dal viso, l’altra la teneva stretta a sé, il braccio intorno alle sue spalle, consolandola. Sono rimasta un po’ confusa. Ma che posto era? Non sapevo se buono o cattivo. Probabilmente nessuno dei due, ma soltanto un luogo dove uno si accorge in modo più evidente del solito di quello che non ha spazio nella vita frenetica di tutti i giorni.
Ho dato un ultimo sguardo verso l’orizzonte, sul mare che era di un turchese chiaro e splendido là dove si univa al cielo, e più scuro e grigio là dove correva verso la terra. Il sole che sbirciava da dietro le nuvole faceva scintillare l’acqua. In silenzio ho detto addio, mi sono girata e mi sono incamminata verso le case della città, felice e triste allo stesso tempo. Ma poi, la sorpresa più grande che mi ha lasciato il mare era, quando, distrattamente, ho aperto la bocca e l’ho sfiorata con la punta della lingua, il gusto di sale sulle mie labbra.
© Patrizia Parolini